Giovedì 23 maggio alle ore 17:30 presso l’Auditorium comunale “Mario e Benvenuto Cuminetti” di Albino si è tenuta la premiazione dei finalisti e vincitori nelle quattro categorie previste dal concorso. Al termine della cerimonia è stato distribuito il libro cartaceo che terrà vivo il ricordo della IV edizione, dedicata ai temi dell’Inquietudine e della Leggerezza.
All’edizione 2024 del concorso hanno partecipato alcuni studenti del Liceo Amaldi, che hanno ottenuto bellissimi risultati:
- Enea Azzola (4B): primo premio, categoria “Poesie della Lombardia”
- Vivian Gualandris (4H): finalista nella categoria “Selezione dei testi”
- Beatrice Mihalcsik (2F): terzo premio, categoria “Racconti della Lombardia”
Complimenti agli studenti partecipanti da parte di tutto il Liceo Amaldi!
Di seguito vengo riportati i testi tratti dal libro pubblicato.
di Enea Azzola
Nero Nembo
Ti celi, nascosta, nel divenire,
tra lo stame filato dalle Parche tremolanti,
angosciosa ti nutri di speme e d’attesa,
sfianchi e tien desti, colpisci per ferire.
Ti insinui silente nelle menti,
padrona d’ogni sicurezza,
nutrita e odiata dall’io dilaghi nei cuori
dando ardore ai più infimi pensieri.
Potente in potenza, inezia in realtà,
come il legno alimenta la fiamma distruttrice
così con i suoi inutili affanni
l’intelletto ti rinvigorisce, sua rovina.
Spietata tormenti il pensiero
con il pensiero, la ragione con la ragione.
Ogni titubante tentativo respingi
di scacciarti dal tuo regno.
Prosperi e persisti come nero nembo
nella mente del nubivago.
Quante pene potrei scampare
se solo afferrassi che tu abiti il futuro
e io il presente.
Giudizio della giuria
Con un lessico ricercato e un’ottima padronanza linguistica l’autore descrive la forza rovinosa dell’inquietudine. La serie di quartine, scandite da studiate insistenze foniche, è conclusa da un densissimo e perentorio verso finale, che apre uno spiraglio di speranza: riuscire a vivere il presente.
di Vivian Gualandris
La fatalità del tempo
Questo malinconico inverno
trascina ferocemente nell’oblio
ciò che rimane
degli istanti della mia estate.
Con il suo inevitabile impatto
l’inquieto morso del divenire
divora i miei ricordi.
Trascorre senza pietà
sulle mie più crude emozioni.
Ed io mi oppongo,
con tutte le mie forze,
talvolta prego
nel vano tentativo
di non dimenticare
quegli attimi di spensieratezza.
La mia è una patetica nostalgia
di un giovane breve amore
che nella sua fugacità e leggerezza
mi donò la luce
tanto agognata dal mio animo.
In queste giornate grigie,
dove tutto diventa cupo,
io mi sforzo di ricordare.
Malgrado il dolore
che questa inesorabile caducità mi reca.
Nel tuo silenzio mi muovo impetuosa
cosi facendo
il mio fragile cuore resta caldo
imperturbato dal cinico gelo
che Gennaio trascina con il suo decorso.
Ma questo continuo mutare
rende giorno dopo giorno
quei ricordi meno nitidi.
Ed inconsapevolmente li abbandono al passato,
custodendo in me soltanto
qualche memoria sbiadita.
Talvolta mi pento
della viscerale passione
con cui vivo i miei sentimenti.
Eppure vi è così tanta bellezza
nell’intensità della mia consapevolezza.
di Beatrice Mihalcsik
Allegro ma non troppo
Anni e anni orsono, quando il tempo viaggiava seguendo il corso del Grande Fiume, e le parole erano leggere come l’aria, dalla schiuma del mare emerse un popolo di ombre. Gli dei erano stanchi del silenzio. Furtivi popolarono gli alberi più alti, per poter osservare e non essere osservati. Da lassù iniziarono a raggiungerli le parole degli umani, portate dalla pioggia. Si trattava di creature strane, pensarono gli spiriti, volubili come le correnti ma non altrettanto forti. Potevano essere scossi anche solo da una parola di troppo. Gli spiriti erano nati per adempiere ad un compito, rendere nuovamente melodiche le giornate sulla terra, pena la perdita della voce.
Prima del sorgere di un nuovo sole, quindi, i più potenti sequestrarono un esemplare di umano, un infante.
Si riunirono attorno a lui, curiosi. Questi li guardò a uno a uno, taciturno, pensieroso: un’espressione corrucciata, esaminando attentamente i volti di quelle strane creature grandi pressappoco quanto una pesca matura. Bionde sopracciglia incorniciavano occhi del colore del cielo di luglio, che si illuminarono di mille soli quando uno degli spiriti inciampò nella propria veste. Un fremito. Poi, dalle labbra del bimbo fuoriuscì il suono più armonioso che quelle creature senza tempo avessero mai sentito. Solo successivamente avrebbero scoperto che si trattava di una risata, in quel momento il nome non era importante: era la più pura delle melodie.
Iniziò quindi un periodo sereno. I canti delle fate riecheggiavano tra le pareti delle abitazioni e nelle onde, in perfetta simbiosi con l’ilarità degli umani. Non una lacrima bagnava la guancia dell’uomo, non un singhiozzo scuoteva la donna.
Un fatidico giorno, quando i primi boccioli rosa scaldavano i rami dei ciliegi, una tortora recapitò il messaggio degli dei: avevano bisogno di suoni nuovi, o avrebbero scatenato le peggiori maledizioni.
Sussulti riempirono il tronco del Quartier Generale una volta che la comunicazione fu terminata. Con un inchino, l’uccello si congedò.
I cortigiani si scambiavano sguardi preoccupati, mani si stringevano e fronti si impregnavano di sudore. Che fare?
Nessuno osava aprir bocca, attendevano solo una Loro parola. I saggi, seduti a gambe incrociate su tappeti di polvere di stelle e broccato, riflettevano. Respiravano lentamente, lisciandosi le lunghe barbe e le vesti candide. Improvvisamente, si alzarono in piedi, il suolo tremava: avevano preso una decisione. Se ne sarebbero andati. Tuttavia, non potevano privare gli umani della cosa migliore che gli fosse stata concessa. Con un soffio, benedissero il popolo che avevano tanto amato: ogni neonato sarebbe stato dotato di un’anima e un corpo limpidi, privi di alcuna inquietudine.
Partirono col cuore pesante, poco dopo le migrazioni delle rondini, i loro canti malinconici spezzati dai sospiri di qualcuno che deve abbandonare la propria terra involontariamente. L’unica certezza era che gli dei, spinti dal desiderio di vendetta nei loro confronti, non avrebbero scatenato maledizioni sugli umani. O almeno così speravano. Era solo questione…
Chiuse il libro improvvisamente, cominciando a prestare attenzione alle parole del professore: «La sinfonia è divisa in quattro movimenti: allegro, adagio, minuetto e finale». La lezione era terminata, e ancora nella sua mente correva senza sosta quella frase.
Sovrastata dal rumore dei suoi stessi pensieri, guardava la finestra, riflettendo. Pensava al fatto che lei stessa era una sinfonia, che tutti lo sono. Rifletteva su come l’infanzia fosse come l’allegro, veloce da togliere il fiato, un dolce abbraccio di gioia, leggerezza, la completa assenza di pensieri negativi e preoccupazioni.
La capacità di ogni bambino di vedere il mondo con colori sgargianti, profumi e colori inebrianti era l’allegro. Un periodo spensierato di cui si sente una profonda mancanza. La mente fuggì a quel libro che tanto l’aveva turbata, e pensò che coloro che l’avevano scritto non avessero tutti i torti, che probabilmente era necessario ringraziare gli spiriti di così tanta gioia.
Rise a bassa voce per la sua stessa innocenza.
Per un secondo si guardò intorno, l’aula era vuota. Decise quindi di appoggiare il capo sul banco in mogano e chiudere gli occhi. Il suo adagio era iniziato improvvisamente, giornate lunghe e interminabili, avvolte da un fitto senso di inadeguatezza si susseguivano. La mente talvolta era come piuma, si perdeva anche la consapevolezza di possederla fino a quando un passo dopo l’altro tornava come piombo, stracolma di tutte quelle inquietudini accumulate nel corso delle ore, dei minuti, dei secondi. Lei odiava l’adagio.
Attendeva con ansia il minuetto, invece. Lasciò la stanza. Le pesanti porte si richiusero con un tonfo sordo. Durante la pausa pranzo, il viale alberato in mezzo al conservatorio pullulava di coppie. Chi più innamorato, chi meno, si guardavano negli occhi senza trovare alcun confine tangibile. Loro stavano vivendo il minuetto. Erano il minuetto. Le loro parole, le carezze, gli sguardi persi come una danza lenta, paziente. Era poi tornando a casa che li vedeva: coloro che avevano raggiunto il finale. Occhi stanchi, privi di luce, piedi che si trascinavano sull’asfalto, consumati da pensieri. Il finale lo sentiva un poco dentro di sé, una presenza spiacevole, un cattivo presagio. Eppure lo udiva chiaramente nelle voci di coloro che hanno già avuto anni per parlare, lo vedeva scritto nelle rughe della fronte dei suoi genitori e nelle mani calde di sua nonna.
Lei temeva il finale. Anzi, ne era terrorizzata.
Questi erano i pensieri che la trasportavano lontano da tutto e tutti, nel corso delle giornate. Quella sera gelida, chiuse la finestra, i primi fiocchi di neve dormivano sul davanzale.
Riprese in mano il suo libro, facendo scorrere le dita, assottigliate da anni di esercizio, sulle pagine ingiallite.
Lo chiuse, preoccupata delle risposte che avrebbe trovato.
Suonò fino a quando il fuoco del camino non si fu spento, in un soffio. Allora prese coraggio e riaprì il volume, rassicurata dal piumone avvolto attorno alle esili spalle.
Era solo questione di tempo prima che gli dei si accorgessero dell’inganno che era stato fatto loro. Infuriati come un temporale estivo, si scagliarono con odio contro agli uomini. Li maledissero, augurando loro un’eternità di dolore. Gli spiriti, previdenti, avevano scagliato una benedizione resistente come il più puro dei diamanti. Accadde quindi che i due potenti incantesimi si fusero tra di loro, dando vita ad un nuovo suono: era nata la sinfonia.
Ancora una volta, gli dei avevano plasmato l’umanità secondo il loro volere.
Giudizio della giuria
Racconto a metà tra fantasy e mitologico che intreccia il senso della vita alla teoria musicale. Il contrappunto che si viene a creare tra mondo fantastico e vita reale porta il lettore in una dimensione metafisica che riflette sulle eterne domande del mondo, arrivando a un epilogo per niente scontato.
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